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Gennaio 21, 2019 In Interviste

La microintervista: 6+1 domande a Francesca Bononi

Francesca Bononi è nata a Rovigo e ha studiato a Venezia, Parigi e Roma dove, nel 2013, si è specializzata in Scienze della traduzione all’Università “Sapienza” e dove tutt’ora vive. Collabora come lettrice e traduttrice di narrativa (prevalentemente) e saggistica dal francese per diverse case editrici indipendenti, tra le quali 66thand2nd, L’orma editore, NN Editore, Nonostante Edizioni.

1. Dove lavori? Il più delle volte a casa, dove ho una bella scrivania disordinata, piena di scartoffie e libri impilati, e che guarda fuori dalla finestra; per cambiare vado spesso anche in biblioteca, specialmente nei giorni in cui fatico a trovare la concentrazione e ho bisogno di un posto nel quale non ci siano distrazioni. Da questo punto di vista la Biblioteca Nazionale è un luogo perfetto: asettica, silenziosa, grandi scrivanie, internet ben funzionante, libri e dizionari in quantità. Poi nella fase di rilettura, a traduzione molto avanzata dunque, mi piace uscire e andare a lavorare in qualche bar (ho sia la versione estiva che quella invernale), magari con il testo stampato: trovo che cambiare scenario giovi molto alla traduzione.

2. Il libro della tua vita: Direi, senza troppe esitazioni: Elsa Morante, L’isola di Arturo.

3. La parola che ti fa mettere le mani nei capelli: Forse l’on, il pronome personale indefinito che in francese, a seconda dei casi, può indicare un io, un noi, un tu o un voi, o un loro: praticamente tutto! Non accade sempre che mi faccia mettere le mani nei capelli, a volte il soggetto è chiaro e quindi in traduzione lo esplicito senza troppi tentennamenti. Ma quando così non è, è una bella gatta da pelare e in questi casi trovo sia sempre motivo di perdita in traduzione.

4. La frase che avresti voluto tradurre tu: «Aujourd’hui, maman est morte. Ou peut-être hier, je ne sais pas. J’ai reçu un télégramme de l’asile: “Mère décédée. Enterrement demain. Sentiments distingués.” Cela ne veut rien dire. C’était peut-être hier.» (Albert Camus, Lo straniero). Ma non direi che avrei voluto tradurla io, questo no. È solo che penso a chi si è trovato – e si troverà – a tradurre uno degli incipit più famosi e struggenti della letteratura e, be’, lo trovo emozionante.

5. Uno strumento di lavoro (informatico o analogico) di cui non puoi fare a meno: Il Dizionario Analogico della Lingua Italiana di Zanichelli. È un’opera meravigliosa, intelligente, che fa molto più di un semplice dizionario dei sinonimi. Mi aiuta ad avvicinarmi alla parola esatta, quella che spesso ho sulla punta della lingua, o quella a cui non avevo affatto pensato, o quella che non conoscevo ancora. È uno strumento incredibile, che accompagna al reperimento delle parole. E un leggio per libri! Traduco sempre a partire dalla copia cartacea del romanzo e il leggio da tavolo è uno strumento utilissimo da tenere accanto al computer.

6. Il tuo guilty pleasure: Ne ho molti, uno fra tutti: mangiare il burro d’arachidi a cucchiaiate (per non dire palate!).

+ 1. Si parla sempre della solitudine di chi traduce: quanto è importante per te la comunità di colleghe e colleghi? Parecchio, del resto mi piace incontrare colleghe e colleghi, confrontarmi con loro, parlare; mi capita di lavorare in compagnia di amici-colleghi traduttori, magari a casa o in biblioteca; partecipo spesso a tavole rotonde, giornate di studi, gruppi di lavoro, momenti di condivisione più o meno ufficiali (da questo punto di vista abitare a Roma, che è uno dei principali poli editoriali in Italia, è un vantaggio): si impara molto dalle esperienze degli altri. Ma ci tengo anche a dire che non soffro più di tanto la solitudine del traduttore, anzi, trovo che il lavoro in solitaria mi sia congeniale. E poi a tradurre la voce dell’Altro non si è mai soli.


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