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Novembre 14, 2018 In Interviste

La microintervista: 7+1 domande a Marta Barone

Marta Barone è nata a Torino nel 1987, dove si è laureata in letterature comparate, e vive a Como. Traduce dall’inglese e dal francese, finora soltanto romanzi e racconti, a parte una graphic novel. È stata per molto tempo lettrice editoriale per Einaudi, Mondadori Ragazzi, Rizzoli, e a volte lo fa ancora, ed è l’orgogliosissima curatrice delle opere di Marina Jarre, incarico che le è stato affidato l’anno scorso. Ha scritto tre libri per ragazzi e sta finendo il suo primo romanzo, che uscirà per Bompiani nella primavera 2019.

1. Dove lavori? Quasi sempre a casa, al computer fisso. In biblioteca mi distraggo troppo, ma ne vale anche la pena per la birra e i pettegolezzi alla fine della giornata con l’amico che ha lavorato di fronte a te.

2. Il libro della tua vita: Questa è una domanda di una violenza aberrante e dovreste saperlo. Comunque, per comodità, diciamo Pnin. E La Recherche, anche perché le sue ramificazioni nel Novecento comprendono buona parte dei libri che amo.

3. La parola che ti fa mettere le mani nei capelli: «Maestro». E «assaporare».

4. La frase che avresti voluto tradurre tu: «Era ancora un opporsi al tempo: un nome, una somma di vita di cui nessuno calcolerà gli eventi innumerevoli, un segno lasciato da un uomo smarrito in quella successione di secoli». (Marguerite Yourcenar, Memorie di Adriano, trad. di Lidia Storoni Mazzolani)

5. Uno strumento di lavoro (informatico o analogico) di cui non puoi fare a meno: Il leggio per tenere su il libro o l’ipad con il pdf di quello che devo tradurre. Anche per questo mi è scomodo andare in biblioteca, non posso portarmelo dietro.

6. Il tuo guilty pleasure: Non so se è guilty, ma spesso, anche se devo scrivere o lavorare a casa, mi vesto di tutto punto, mi pettino e a volte persino mi trucco, come se andassi a un lavoro d’ufficio. È un modo per resistere all’abbrutimento quando devo restare rinchiusa per tanti giorni di fila.

7. Una cosa di cui sei orgogliosa: Sono sempre orgogliosa quando qualcuno mi dice che ho fatto un buon lavoro.

+1 Come hai fatto a tradurre Cime tempestose senza farti trascinare nella follia e/o evocare fantasmi? Dato che ci lavoravo dodici ore al giorno, era inevitabile che a un certo punto cominciassi a sognarlo ripetutamente: niente fantasmi, o meglio, sognavo pezzi fantasma che non esistevano e mi ero dimenticata di tradurre, e il libro usciva incompleto, o il testo che si moltiplicava e proliferava in modo mostruoso, e variazioni sul tema (una specie di versione da traduttore dei sogni in cui scopri che non hai finito gli esami all’università o che devi tornare a scuola).


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