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Febbraio 18, 2019 In Interviste

La microintervista: 7+1 domande a Stefania Bertola

Stefania Bertola alterna l’attività di scrittrice a quella di sceneggiatrice e traduttrice. Il suo ultimo libro si chiama Ragione e sentimento ed è una riscrittura in salsa rosa e ironica del romanzo di Jane Austen. Ha tradotto per diverse case editrici, tra gli altri: Jay McInerney, Ian McEwan, Sophie Kinsella, John Updike, Philip Roth e Neil Gaiman.

 

1. Dove lavori? A una scrivania molto disordinata. Sopra ci possiamo trovare tantissimi pezzi di carta tipo bollette della luce, multe o pubblicità di “Panorama”, e oggetti a caso, ad esempio due caleidoscopi, un piccolo mappacielo, penne stilo che vorrei tanto usare ma non compro mai le cartucce, un barattolino pieno di quegli zuccherini colorati che vendono nei ristoranti indiani. La stanza in cui si trova la scrivania è grande, col camino e due finestre che danno su un terrazzo. Sotto però c’è la statale, con autobus e macchine, perciò non fatevi idee bucoliche. Spesso lavoro anche in cucina, o mi porto il Mac a letto, e cerco assurdamente di scrivere e intanto guardare la tele. Scrivo dove capita, non ho fisse, né esigenze particolari, né preferenze smaccate.

2. Il libro della tua vita: Boh. Uno non c’è. Ce ne sono stati tanti, a seconda del momento. Posso dire che il primo che mi ha fatto venire voglia di viverci dentro è stato I tre moschettieri, l’autore che mi ha fatto capire la meraviglia esaltante di raccontare una storia è Dickens, il libro che mi ha posto per primo il problema dello stile è Emma di Austen. Ma sono tre su mille.

3. La parola che ti fa mettere le mani nei capelli: Matteo Salvini. Sono due, lo so. Vale lo stesso? Ho scelto lui perché Luigi Di Maio erano addirittura tre.

4. La frase che avresti voluto tradurre tu: Cioè? Non capisco questa domanda. Perché avrei voluto tradurla io? Una frase? Diciamo un libro che avrei voluto tradurre io? Il nostro comune amico, di Dickens. In generale, la mia aspirazione è tradurre Dickens, o Jane Austen, o Thackeray, insomma, un grande classico inglese fra sette e ottocento. Come traduttrice, mi riterrei perfettamente felice.

5. Uno strumento di lavoro (informatico o analogico) di cui non puoi fare a meno: Il mio mac. Se mi trovassi a dover per forza scrivere su un PC, non credo che riuscirei, non ne vengo veramente a capo, dei PC. Piuttosto che un PC, preferirei scrivere a mano. Ecco, in effetti l’unico strumento di lavoro di cui non potrei proprio fare a meno è un quaderno, se ho un quaderno e una penna (stilo, con le cartucce) sono a posto. Sarebbe più faticoso, abituata come sono ormai a scrivere e correggere nello stesso fluido momento. Ma tra PC e quaderno, non esiterei. Però il quaderno deve essere a righe. Non sopporto i quaderni con la pagina tutta bianca, mi bloccano completamente. Al limite, posso accettare i quadretti.

6. Il tuo guilty pleasure: A questa domanda non rispondo in segno di protesta contro il «guilty pleasure». E tutti gli usi inutili di parole inglesi non necessarie. La trovo… non so… una ostentazione forse, o un tentativo di essere fighi. Tipo «curvy», o «comfort zone» o «concept» o «plot» o che ne so… avete capito. Poi, dai, proprio in una intervista sulle traduzioni… Traduciamo.

7. Una cosa di cui sei orgogliosa: Aver lavorato per Giulio Einaudi.

+1: Tra le tue varie attività – scrittura, traduzione, sceneggiatura – dove domina la ragione, dove il sentimento e dove, eventualmente, la follia? Ragione e sentimento credo siano la stessa cosa, o perlomeno sono gemelle siamesi con un solo cervello e un solo cuore. Mi sembra, per quello che posso capire, di essere sempre uguale, in tutti i lavori che faccio. Semplicemente, a volte ho più limiti messi da altri, altre volte sono totalmente libera. Sicuramente, quando scrivo e quando traduco sono libera, quando lavoro (lavoravo, perché è un pezzo che non ne faccio più) a una sceneggiatura o scrivo per la radio, meno, devo rispettare consegne ed esigenze altrui.
Ma in realtà non so bene, analizzo molto poco quello che faccio e quello che penso, credo di vivere abbastanza all’esterno di me stessa. E in quanto alla follia, non mi pare di avere questa benedizione artistica, tanto millantata ma in verità tanto rara. Sono normale.


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